Talent fit: cos’è e perché è importante per la tua azienda

Quando il talento è ricco, è come una vena d’acqua: trova sbocchi in vari luoghi.

Che cos’è il talento? Come si misura? Non è facile rispondere a queste domande. Qualche tempo fa, parlando di cinema, un mio amico mi ha chiesto “chi è secondo te il più bravo attore al mondo?”. Visto che non sapevo scegliere, lui ha suggerito Jack Nicholson. Di primo acchito ho convenuto, ma poi ho pensato “però io non me lo vedo a pilotare un F-18 Super Hornet come Tom Cruise”.

Ora, al di là dei gusti cinematografici personali, è innegabile che esistano attori più adatti per alcuni ruoli piuttosto che per altri (del resto, anche per fare i casting ci vuole talento).

Succede la stessa cosa anche a livello aziendale dove è importante trovare i talenti giusti per i ruoli più adatti affinché l’azienda abbia successo. Ecco perché ho deciso di contattare Giorgio Maggi, esperto di talent fit, affinché ci spieghi cos’è questo approccio e perché è diventato fondamentale per ogni azienda.

L'intervista

Giorgio, grazie per aver accettato di farti intervistare. Raccontaci intanto qualcosa di te.

È da tanti anni che studio il fenomeno del talento umano da un’angolazione diversa dal solito. Sono sempre stato attratto dalla possibilità di afferrare e captare un qualcosa d’intangibile come il talento e le attitudini naturali del nostro comportamento. Per fare ciò, è stato necessario adottare una lente interdisciplinare che comprendesse più discipline alleate tra loro. Parlo di neuroscienze, di antropologia culturale, di sociologia e di psicologia sociale. Ma anche di biologia e di etologia umana.

Qual è l’obiettivo di questo approccio interdisciplinare?

Partire da angolazioni diverse consente di arrivare al centro della questione, ovvero alla comprensione delle costanti che governano il talento e le sue dinamiche. Dallo studio approfondito e sistemico alla sperimentazione il passo è stato breve. In tal senso ho costruito una web application, user friendly, che potesse fotografare il potenziale talento in modo innovativo, semplice da leggere e utile da poter usare. Così è nata l’app di Homo Talent.

Come ti è venuta l’idea?

Homo Talent nasce prima come libro nel 2012 (prima edizione). Nel 2020, durante il lockdown, nasce la piattaforma web con un obiettivo molto ambizioso: misurare la compatibilità tra le attitudini e le nuove professioni digitali. Questo è successo anche per l’effetto trasformativo che la pandemia ha portato con sé. Ci siamo resi conto che le persone stavano cambiando le proprie priorità di vita e stava emergendo una nuova scala di valori più improntata sulle passioni e sulle personali vocazioni. Da lì abbiamo costruito degli strumenti digitali che potessero aiutare da una parte le persone a misurare la compatibilità con le nuove professioni digitali sempre più pervasive nel mercato del lavoro. Dall’altra le aziende ad intercettare i talenti in modo differente dal solito.

In che senso?

Invece del solito modello top-down, in cui il candidato vede un’offerta di lavoro e poi invia il cv, abbiamo adottato un modello bottom-up: lo scouting avviene dal basso e non è finalizzato solamente a riempire una posizione vacante, bensì è un’attività strategica e permanente di talent acquisition.

E adesso hai avviato anche il progetto Talent Share. Di cosa si tratta?

Talent Share è stata la naturale evoluzione di Homo Talent per favorire le attività di recruiting delle aziende e portarlo nell’open innovation. Talent Share, letteralmente, vuol dire “condivisione di talenti” e l’idea è quella di consentire alle imprese che si gemellano di scambiarsi profili di talenti in modo da velocizzare, semplificare e rendere più sostenibile l’attività di recruiting.

Sostenibile economicamente?

Sì, ultimamente il recruiting sta diventando sempre più costoso e inefficace inibendo la crescita delle imprese che non riescono a soddisfare le richieste del mercato. Talent Share è, in questo senso, una soluzione strategica di talent acquisition e management che ridisegna il rapporto tra talento e impresa in un’ottica di collaborazione e di meritocrazia. In sostanza, sia l’impresa sia il talento ne escono vincitori.

Dopo la pandemia, sono emersi fenomeni come Great Resignation, Quiet Quitting… com’è cambiato il mercato del lavoro? Sono solo gli strascichi di COVID-19?

Sono tutte facce della stessa medaglia. Non li ritengo affatto solo strascichi del Covid-19 bensì effetti di una crisi latente che da anni stava covando e che la pandemia ha liberato definitivamente. Il tema centrale è il risveglio della consapevolezza delle persone che non sono più disposte a tollerare comportamenti anomali delle organizzazioni incapaci di gestire il talento. Le persone scelgono di vivere assecondando sempre più le proprie vocazioni e le proprie passioni e si allontano da aziende tossiche, conservatrici, che ancora adottano modelli obsoleti di gestione del lavoro e dei propri collaboratori. D’altro canto, si avvicinano a quelle aziende che riescono a creare una cultura organizzativa sana, sostenibile e sensibile verso le istanze delle persone. Ci troviamo nel bel mezzo di una grande trasformazione culturale e valoriale di enorme portata che richiederà uno sforzo diverso da quello finora messo in campo dalle organizzazioni.

È per questo che sono convinto che la “cultural fit” debba entrare nel Dna delle aziende.

Esatto. La “cultural fit” non solo è importante, ma sta diventando la cosa più importante nel rapporto tra talento e impresa. Se le competenze diventano velocemente obsolete e l’automazione procede a ritmi sostenuti, il collante che tiene insieme il mondo del lavoro è l’asset intangibile per antonomasia di ogni organizzazione sociale: la cultura. Ovvero l’insieme di tutti quei riti, rituali, miti, gesti, simboli, modi di pensare, modi di fare e d’interagire che costellano la vita aziendale. L’allineamento e/o l’adattamento culturale tra una persona e un’azienda sarà il parametro principale che connoterà il mercato del lavoro del prossimo futuro.

Cosa deve fare un’azienda per implementarla, secondo te?

Per prima cosa destrutturare tutto l’impianto che per anni si è costruita per far fronte alle sfide organizzative. Sono consapevole che proviene da un retaggio culturale tipico del novecento e che è “duro a morire” ma è un’azione necessaria per far spazio alla nuova mentalità.

De-strutturare per ri-strutturare. Bellissimo. E poi?

Inoltre, occorre cominciare a concepire l’azienda non più come una macchina dotata di tanti ingranaggi bensì come un organismo vivente in osmosi con l’ambiente circostante. Gli strumenti non servono a niente se prima non si è lavorato sulla mentalità e su una concezione nuova.

E in questo processo, ovviamente, il digital è un alleato.

Il digital, ovviamente, offre tantissime opportunità al recruitment così come a tante altre funzioni aziendali. Ritorno però sul punto precedente: gli strumenti (compreso il digital) servono a qualcosa se non si comprende a fondo la trasformazione sociale e culturale che stiamo vivendo? Perché di questo si tratta. Il recruitment, per esempio, a parte l’implementazione di tecnologie innovative nei suoi processi non ha evoluto le proprie teorie e le proprie tecniche per adattarsi ai tempi. In sostanza, le macchine hanno sostituito qualche mansione ripetitiva ma non hanno creato valore significativo all’esperienza che si prova quando si cerca e si offre lavoro.

Fordismo 4.0, direi con una battuta.

In un certo senso. È rimasto il processo tradizionale con l’aggiunta di tecnologie all’avanguardia. Non è un caso che, infatti, il processo di selezione si trovi in un periodo di fortissima crisi. Lo dimostra il fatto che non riesce a risolvere i problemi per cui è nato ovvero quello di far incontrare domanda e offerta di lavoro. Gli alti tassi di mismatching ne sono la conseguenza.

Quindi ancora una volta la parola d’ordine è “cultura”?

Sì, il recruitment necessita di una profonda rivisitazione culturale e metodologica che sia in grado di portarlo ad un livello di pensiero più elevato. Non parlo neanche di AI applicata al recruiting perché a mio avviso si tratta di un’altra moda manageriale che rischia di fuorviare il vero nocciolo della questione: rivoluzionare il modo di rapportarsi tra talento e impresa secondo criteri di nuovo umanesimo del lavoro.

È in questo contesto che si colloca il Vocational Advisory di cui parli nel sito di Talent Share? Di cosa si tratta?

Il Vocational Advisory è un tipo di consulenza che nasce proprio per far fronte ai problemi emersi recentemente. Ovvero quelli legati alla crisi di senso e di significato che la vita e il lavoro portano in seno. Sempre più persone riflettono sulla qualità della propria esistenza e sulla felicità insita nel lavoro che svolgono. Sono temi legati alla nostra epoca post-industriale che ha contorni più sfumati rispetto alle epoche precedenti. Ci vuole uno sforzo diverso per poter concepire il futuro che abbiamo di fronte. L’ozio creativo, per dirla alla De Masi, è il modello che sta emergendo e che connoterà il nostro futuro. Studio, lavoro, svago e relazioni si ibrideranno sempre più per fornirci un’esperienza di vita tesa alla ricerca della felicità e della convivialità. C’è un tribalismo di ritorno, per dirla alla Maffesoli, che sta manifestando tutto il suo carattere. Le vocazioni rappresentano il focus verso cui tendere per poter interagire nelle nuove forme di socialità. Individuo e comunità si amalgano reciprocamente per mezzo delle vocazioni.

Giorgio, ti ringrazio davvero per l’intervista. È stata molto interessante. Speriamo che aiuti a innescare il cambiamento culturale di cui c’è bisogno.

Grazie a te, Gian Maria. Speriamo di aver piantato un altro seme.

Con questo post inauguro una nuova rubrica, "L'angolo dell'esperto", in cui intervisto professionisti che operano in vari settori della business innovation.

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