Il mondo delle risorse umane è in fermento. La “great resignation” non è un fenomeno solo americano. L’Aidp (Associazione italiana direzione personale) ha pubblicato dati che parlano chiaro: le dimissioni volontarie interessano il 60% delle aziende, riguardano diverse decine di migliaia di posizioni e coinvolgono principalmente le aree dell’informatica e del digitale, la produzione, il marketing e le vendite. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto gli addetti fra i 26 e i 35 anni (il 70% del campione analizzato) e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. Ad alimentare questo fenomeno concorrono in modo particolare la ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e la speranza di trovare un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro.
Poca spesa, tanta resa
Le aziende si stanno impegnando, chi più chi meno, a fronteggiare questo problema cercando di rendere le condizioni di lavoro più attraenti e gratificanti; tuttavia spesso gli sforzi vengono concentrati solo sugli alti profili, trascurando le condizioni dei lavoratori a basso reddito.
Eppure basterebbe poco per migliorare la qualità del lavoro, a tutto vantaggio dell’azienda, perché è dimostrato che un grado maggiore di soddisfazione psicologica tende a correlare con maggiori entrate e profitti.
Ce lo dice la scienza
Gli studi più recenti di neuroscienze e biologia evolutiva confermano che nell’essere umano c’è molto di più che sopravvivere e procreare. Bisogni psicologici come il senso di appartenenza e l’autostima hanno pari dignità dei cosiddetti bisogni primari. Non è una sorpresa, quindi, che le persone chiedano qualcosa in più di una busta paga e un posto dove lavorare. Una preponderanza di prove suggerisce che “un buon lavoro” significa anche soddisfare i bisogni psicologici dei dipendenti.
Da un recente sondaggio McKinsey condotto su 50 mila persone in 38 Paesi, è emerso che a tutti i livelli di reddito, i driver più importanti della soddisfazione lavorativa sono le relazioni interpersonali e il livello di gratificazione al lavoro. Basti pensare che solo il 16% degli intervistati ha valutato “un reddito elevato” come più importante dell’avere “un lavoro interessante”.
L’istituto di ricerca Gallup, che da anni misura il coinvolgimento dei dipendenti in oltre 150 Paesi, ha rilevato in una recente indagine che solo il 20% dei dipendenti si sente coinvolto nel lavoro che svolge. All’interno di questo gruppo, ci sono dipendenti che sono così frustrati da fare di tutto per sabotare il loro posto di lavoro. Questi sabotatori costituiscono il 18% della forza lavoro.
Riguarda tutti i ruoli
Lo sforzo che va fatto è ridurre il gap fra la soddisfazione dei profili manageriali e quelli inferiori. Anche coloro che sono impiegati nei lavori più manuali, di routine, ripetitivi o mal pagati desiderano che il loro lavoro sia significativo, sentirsi orgogliosi dell’azienda per cui lavorano e che il loro ruolo consenta loro di esprimere e soddisfare i propri bisogni per competenza, autonomia e relazione.
Oltre alle ragioni morali per pareggiare il gap sul benessere psicologico, c’è anche un forte business case. Una base di prove esauriente mostra che una maggiore soddisfazione dei dipendenti è associata a una maggiore redditività e che questo fenomeno non è limitato ai ruoli più redditizi di un’azienda. Si consideri il caso del personale del servizio clienti in prima linea: un esperimento ha mostrato che le vendite settimanali per gli operatori di call center sono aumentate del 13% quando la felicità degli operatori è aumentata di un punto su una scala da uno a cinque. Soddisfazione dei lavoratori e soddisfazione del cliente tendono ad andare di pari passo.
Serve un cambio culturale
Inoltre, per le aziende, perdere personale significa reclutamento e riqualificazione costosa e dispendiosa in termini di tempo, per non parlare della perdita in termini di produzione e produttività. Il benessere psicologico sul lavoro è uno dei fattori più importanti nelle decisioni dei dipendenti di restare o partire. Indipendentemente dal livello di reddito, i lavoratori che si sentono orgogliosi dell’azienda per cui lavorano sono molto più propensi a rifiutare un lavoro in un’altra azienda, anche se con una retribuzione più alta.
Come in tutti gli articoli che scrivo, voglio puntare la luce sul fatto che anche per questo fenomeno la soluzione va cercata in un cambio culturale: il processo di discussione e di ascolto delle esperienze quotidiane dei dipendenti è di per sé una parte fondamentale della creazione di un cambiamento positivo, da cui devono scaturire azioni specifiche, creando iniziative, progetti e processi per aiutare i lavoratori a sentirsi più abili, in lavori che sono, per quanto possibile, più basati sulle competenze, autonomi, connessi, interessanti o mirati.
Oltre i bisogni fondamentali
Tuttavia, è di vitale importanza basare queste discussioni su qualcosa che vada oltre i bisogni fondamentali dei lavoratori, come la sicurezza fisica e la retribuzione. Il dialogo dovrebbe concentrarsi sia su ciò che le persone pensano del lavoro sia su come si sentono riguardo al lavoro. È probabile che tali discussioni scateneranno una serie di risposte, sia positive che negative, che i leader dovranno affrontare con rispetto e abilità.
Oltre ai processi di coinvolgimento dei dipendenti, le aziende devono trovare il modo di innescare dei circoli virtuosi attraverso mentalità, comunicazione, formazione e processi di gestione delle prestazioni: riconoscere la competenza, delegare, fornire feedback, costruire connessioni e socializzazione, coinvolgere negli obiettivi aziendali, alimentare il senso di scopo individuale dei lavoratori.